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don Ferdinando a Roma - archivio di famiglia Davide Ferdinando Zappia |
Davide Ferdinando Zappia è l’unico tra i nipoti a portare il nome del nonno. Quando ci siamo incontrati a Milano, nel novembre del 2024, nel ristorante che lui stesso gestisce, abbiamo parlato a lungo. Lui ha raccontato tanto, e io ho ascoltato. Mi ha parlato di suo nonno, di quel don Ferdinando che in paese tutti ricordano come don Ferdinandu da luci. Un uomo che ha segnato un’epoca, lasciando il suo nome inciso nella memoria di Platì.
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don Ferdinando in divisa militare - archivio di famiglia Davide Ferdinando Zappia |
Don Ferdinando nacque nel 1904, figlio di Rosario (1874) ed Elisabetta Zappia (1884). La genealogia qui si fa intreccio di storia e storie: tra Rosario ed Elisabetta scorreva lo stesso sangue. Risalendo di tre generazioni, si arriva a un antenato comune: Carlo Antonio Zappia di Fabrizio, marito di Deodata Perri, e siamo già ai primi del Settecento. Ferdinando portava il nome del nonno, marito di Rosina Oliva. E proprio qui occorre stemperare certe pretese di nobiltà ostentate da una delle figlie di don Ferdinando. Perché il fatto di avere una Oliva tra gli avi non implica necessariamente titoli altisonanti. Gli Oliva erano sì proprietari terrieri, diplomatici, medici, ma solo un ramo della famiglia poteva vantare un effettivo blasone.
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Rosario ed Elisabetta Zappia - archivio di famiglia Davide Ferdinando Zappia |
Tuttavia, una nobildonna don Ferdinando la sposò davvero: Rosa De Leonardis, nata a Taurianova nel 1913, figlia del barone Francesco De Leonardis. E qui la matassa si aggroviglia di nuovo. Perché Rosa De Leonardis e don Peppino Zappia, il fu sindaco (parente di don Ferdinando) – e quanti don in questa storia! – avevano una nonna in comune.
Ma torniamo a lui, a don Ferdinando, personaggio che Platì non dovrebbe dimenticare.
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don Ferdinando a Roma con Carlo Zappia - archivio di famiglia Davide Ferdinando Zappia |
Era amico fraterno del medico Giuseppino Mittiga, con cui aveva studiato a Napoli. Aveva scelto economia e commercio, ma non arrivò mai alla laurea. Il suo legame con Mittiga lo portò più di una volta a scontrarsi con il cugino, quel don Peppino di cui sopra.
Durante il suo mandato da sindaco di Platì, fino al 1943, il segretario comunale era il padre di Sisinio Zito (di cui ho già scritto). Oltre alla politica, possedeva un grande frantoio e si spese per la comunità: fu lui a portare le suore della Divina Provvidenza da Roma per fondare l’asilo. Tra loro c’era suor Saverina, che insegnava pianoforte ai rampolli della "Platì benestante".
Ma il vero motivo per cui oggi scrivo di don Ferdinando – e lo faccio grazie all’incontro con i suoi nipoti, Davide e Debora, figli di Elio – è il suo sogno: la luce. E la mamma di Davide e Debora, la signora Leonarda, ricordando il suocero, ha sottolineato con affetto quanto fosse distinto nei gesti e raffinato nei modi. "Elio ha preso da lui", ha aggiunto, con quell’orgoglio sottile di chi ha conosciuto da vicino una figura d’altri tempi. Eppure, la sua grandezza non stava solo nei gesti, ma nell’aver dato alla sua gente qualcosa di rivoluzionario: l’elettricità.
Nel 1948 don Ferdinando avviò i lavori per la costruzione di una centrale elettrica su un terreno di famiglia. L’anno dopo, nel 1949, a Platì arrivò finalmente la luce. Un salto nel futuro. Un passaggio dalla lumera alla modernità.
Nel 1949, quando a Platì finalmente si accendevano le prime lampadine, molte altre località della Calabria erano ancora immerse nell’oscurità. In diversi paesi dell’Aspromonte l’elettrificazione sarebbe arrivata solo negli anni successivi, seguendo un percorso lento e spesso ostacolato dalla conformazione del territorio e dalla mancanza di infrastrutture adeguate. Anche città più grandi come Reggio, Cosenza e Catanzaro, pur avendo già l’illuminazione pubblica, non vedevano ancora una diffusione capillare della corrente nelle case più isolate. Se allarghiamo lo sguardo al mondo, il paragone è ancora più interessante: nello stesso anno, nel 1949, New York era una metropoli di luci e neon, mentre in molte zone rurali d’Europa e del Sud Italia si viveva ancora al ritmo delle candele e delle lampade a olio.
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Cabina della luce ricostruita dopo l'alluvione |
A pensarci bene, l’impresa di don Ferdinando non fu poi così piccola. Chissà, forse la luce cambiò davvero la vita quotidiana di Platì. Forse le famiglie restavano sveglie più a lungo, forse si leggeva fino a tarda notte, forse la comunità si rafforzò attorno a quell’energia che illuminava le strade e le case.
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Elio Zappia al suo matrimonio, insieme a tutti i fratelli - archivio di famiglia Davide Ferdinando Zappia |
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Elio Zappia con la madre - archivio di famiglia Davide Ferdinando Zappia |
Nel 1951, la grande alluvione spazzò via la centrale elettrica. Platì piombò di nuovo nell’oscurità. Forse quello fu il colpo più duro per don Ferdinando. Pochi anni dopo, intorno al 1953-54, lasciò il paese. Si trasferì a Reggio Calabria, poi a Milano, dove morì nel 1971. Eppure, il suo nome è rimasto. È rimasto nelle storie, nei ricordi, nelle luci che un giorno brillavano grazie a lui. Forse è uno di quei personaggi che meritano una via, un riconoscimento ufficiale. Ma, al di là delle targhe e delle intitolazioni, resterà sempre don Ferdinandu da luci. L’uomo che portò la luce a Platì.
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don Ferdinando |
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