IL BAMBINO TROVATO – Una storia vera di Platì (1843)


Era il 16 settembre del 1843, e il sole batteva forte su strada del Vallone, una delle tante antiche strade di Platì, dove i fichi si seccavano sui tetti e il vento portava ancora l’odore delle ginestre bruciate. Era quasi ora di pranzo quando Francesca Pulsio, levatrice di mestiere, trovò qualcosa che le mozzò il fiato: tra due pietre un fagottino piangeva piano.

Non era un animale smarrito. Era un neonato.

Avvolto in cenci, senza una lettera, senza un segno che dicesse “questo è figlio mio”. Appariva nato da poche ore, la pelle grinzosa e le mani ancora strette a pugno. Donna Francesca, che di bambini ne aveva fatti nascere a dozzine, lo prese tra le braccia come fosse uno dei suoi. Corse al municipio, bussò alla porta del sindaco Francesco Oliva, e lo dichiarò: “L’ho trovato io. Oggi, alle dodici. Era solo. È appena nato”.

In assenza di un cognome da tramandare, fu chiamato Sebastiano Esposito: “Esposito”, come a dire “esposto”, “messo fuori”, “lasciato al mondo senza chiavi né catene”. Quanti Esposito in questo nostro Sud.

A registrare il tutto furono due testimoni: Pasquale Miceli, industriante del paese, e don Francesco Papalia, proprietario di buona famiglia. Gente che conosceva bene ogni nome e ogni volto del paese, e che quel giorno ne incontrava uno nuovo, piccolo come un pugno di pane.

Ma la storia non finì lì.

Otto giorni dopo, il 24 settembre, una donna varcò la soglia del municipio con gli occhi bassi e la voce rotta. Si chiamava Fortunata Bombara, trent’anni, filandiera di seta organza. Veniva da Cannitello, ma in quei giorni lavorava proprio lì, tra le filande di Platì, dove i bachi tessevano in silenzio i fili del destino.

Disse che quel bambino era suo.

“Nato da me, la notte del sedici,” dichiarò, con la voce tremante. Nessuna lettera, nessun testamento: solo il coraggio di tornare. Forse spinta da una coscienza che bruciava o da un amore più forte della vergogna, Fortunata aveva deciso di riconoscerlo. A testimoniare stavolta fu don Domenico Papalia, parente di quell’altro Francesco, e di nuovo Pasquale Miceli, che sembrava spettatore designato di ogni volto che il destino scolpiva sul paese.

Non fu l’ultimo.

Negli anni successivi, altri bambini sarebbero stati lasciati, chiamati con nomi simbolici o immaginifici – Giuseppe Carcorace, Maria Medaglia, Francesca Bellina, Pasquale Cigli – e poi, in alcuni casi, riconosciuti. In quel paese dove le voci correvano più veloci dei muli e le donne cantavano piano mentre lavavano i panni al fiume, la vita continuava a intrecciare fili invisibili: amore, paura, povertà, coraggio.



Il nome Esposito non era una condanna, ma una pagina aperta. E Strada del Vallone, con le sue curve polverose e il canto delle cicale, restava lì, a guardare.


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