C'è una storia che a Platì si è persa nel tempo, una storia che ha attraversato l'oceano, portando con sé la polvere delle mulattiere e i sospiri della montagna. È la storia di Michele Portolesi, emigrato negli Stati Uniti all'alba del Novecento, divenuto là, suo malgrado o per destino, uno dei nomi più temuti della cronaca americana: Mike Portolese, il "Re della Black Hand".
Michele Portolesi – Mike, come lo avrebbero poi chiamato in America – nacque lì, in quella terra aspra, nel 1874.
Figlio di Francesco Portolesi di Domenico, bovaro, e Rosa Oliva, crebbe in un ambiente segnato dalla fatica e dal desiderio di un futuro migliore.
Come tanti, un giorno scelse la via dell'emigrazione. Partì giovane, intorno al 1897, lasciando alle spalle la polvere della Calabria per inseguire il miraggio d’America. Dopo un primo passaggio in Ontario, a Trenton, Canada, Mike approdò negli Stati Uniti, stabilendosi a Niagara Falls, New York. Qui si reinventò: si fece commerciante, aprì un saloon e costruì una nuova vita.
Sposò Marianna Gaglianese il 17 marzo 1915 e insieme ebbero sette figli: Rose, Philipine, John J., Theresa, Elizabeth Marianne, Katherine Mary e Margaret Marianne. Nel cuore di Mike ardeva però qualcosa di diverso: il richiamo della Black Hand – la Mano Nera – un'organizzazione segreta che mescolava estorsione, intimidazione e antichi codici d'onore.
Nelle foto ingiallite dell’epoca, Mike appare con i capelli arruffati, gli occhi penetranti e un baffo spesso: lo sguardo di chi ha conosciuto la miseria e ha scelto di combatterla a modo suo.
A Niagara Falls, il saloon di Mike divenne presto il quartier generale di un gruppo di uomini duri come lui. Spaghetti, birra, danze... e minacce sussurrate tra un bicchiere e l’altro. Gli immigrati italiani tremavano al solo sentir nominare Portolese (negli articoli dell'epoca, vi è questa modifica nella ì finale del cognome, come spesso accadeva nella trascrizione dei cognomi italiani). Bastava una lettera con il disegno di una mano nera, una minaccia di morte, ed ecco che pagavano.
Si diceva che le donne italiane avrebbero pagato cinque dollari solo per sputargli in faccia, tanto era il terrore che incuteva.
Mike non aveva paura.
Più volte dichiarò:
"Ho abbastanza soldi per comprare qualsiasi giudice di questa terra."
E quando venne arrestato e rinchiuso nella prigione di Buffalo nel 1907, lo fece con una sfacciata sicurezza, vantandosi di poter uscire "con una manciata di dollari". Non aveva fatto i conti con la giustizia di Mercer County, Pennsylvania.
Negli anni, Mike era diventato il "Re della Black Hand" a South Sharon, Pennsylvania.
Aveva trasformato un innocuo club sociale di immigrati, il "First Italian South Sharon Club", in un'associazione criminale che terrorizzava 50.000 lavoratori della Carnegie Steel e delle miniere.
Riscossioni, estorsioni, omicidi: il suo regno era costruito sulla paura.
Quando i suoi affari furono smascherati, Mike tentò la fuga.
Si trasferì a Buffalo, poi a Niagara Falls, poi a Bradford, cambiando identità come si cambiano le camicie. Ma la legge gli stava alle calcagna.
Venne infine arrestato nel ottobre 1907, riconosciuto per una cicatrice che gli correva dalla mandibola all'orecchio sinistro. I processi furono un evento memorabile. A Mercer, dodici membri della Black Hand vennero condannati assieme a lui.
Portolese, accusato di estorsione, omicidio e associazione a delinquere, si vide infliggere 10 anni nel Western Penitentiary della Pennsylvania, una multa di 1000 dollari e la restituzione delle somme estorte. Durante la detenzione, nuovi capi d'accusa emersero. Si scoprì che Mike era coinvolto nell'omicidio del guardiacaccia Selee Houk (ucciso nell'autunno 1907) e forse anche del giudice di pace William Duff. Non era più solo un estorsore: era diventato un uomo di sangue.
Nonostante tutto, Mike Portolese non perse mai del tutto il suo alone di leggenda. Dopo aver scontato la pena, visse ancora anni a Niagara Falls, New York. Morì il 20 maggio 1946, all'età di 72 anni.
La sua tomba, semplice, è ancora oggi visibile:
"Father Michael Portolese, 1874-1946."
Eppure, a Platì, nessuno ha mai raccontato apertamente questa storia. Forse per vergogna, forse per pietà, forse perché dimenticata.
Forse perché, come accade spesso nei piccoli paesi, è più facile ricordare chi parte con un sogno che non chi ritorna, anche solo nel ricordo, con un passato così ingombrante.
Mike Portolese resta una figura che sfugge al giudizio facile: bandito o vittima di un destino segnato, piccolo Re della disperazione, figlio di una terra ruvida e bellissima.
Una di quelle storie che meritano di essere raccontate, senza paura e senza retorica, nella grande, tragica epopea dei figli di Platì sparsi per il mondo.
Fonti: articoli di cronaca d'epoca, censimenti americani, documenti di polizia e atti processuali tra il 1907 e il 1924.
Foto: segnaletiche di Mike Portolese conservate negli archivi storici americani.
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