Sono diverse le notizie, i racconti, le storie che ho avuto la fortuna e, concedetemelo, la tenacia di scovare nel corso degli anni. Il mio è un lavoro di ricerca e studio. Così è stato quando ho avuto modo di rintracciare (2015) Il tesoro dei Carcerati scritto dal Saverio Mittica, autore anche di La casa dello speziale (1879).
Siamo nel 1878 e questa novella viene pubblicata a Napoli dalla tipografia Morano. Il titolo compare nel 1880 nella Bibliografia italiana, giornale dell'Associazione libraria italiana. Saverio figlio del mastro calzolaio Michele Mittiga ed Elisabetta Treccasi, nasce il 31 gennaio del 1837 per lasciare questo mondo nel 1914. Quarto di sette figli parte per Napoli dove diviene sacerdote e professore, come riportato nella lapide.
Sempre nel 1837 Antonio Trimboli di 59 anni, alias judice, figlio di Francesco e Antonia Catanzariti, sposa Anna Musolino di anni 20 (generano 9 figli). Un testimone del matrimonio è un certo Rosario Bartone. Nel 1862, a 84 anni, il massaro Antonio judice, ormai ben posizionato tra i fattori e i contadini, viene chiamato per una perizia in un terreno in contrada Boschetto. Testimone all'atto è il nostro Saverio Mittica, all'epoca diacono. Arrivo al punto:
Uno dei protagonisti del racconto che sotto leggerete è un brigante di nome Bartone. Il Bartone Rosario sopra citato muore proprio nel 1878, anno in cui viene pubblicata la novella, e aveva come soprannome proprio brigante. Ma forse mi sto lasciando andare in facili congetture.
Torniamo a noi, nell'anno in cui Bartone Rosario, detto brigante, muore, e Scarfò Vincenzo perde la vita cadendo dal tetto della propria casa, Saverio Mittiga scrive in quel di Napoli, dalla monumentale e seicentesca chiesa dove risiedeva, sita al n.2 di via San Carlo alle Mortelle , una fantastica e fantasiosa novella dal titolo IL TESORO DEI CARCERATI:
SAVERIO MITTICA
IL TESORO DEI CARCERATI
NOVELLA CALABRESE
NAPOLI
A CURA DELL’EDITORE V. MORANO
STRADA SAN SEBASTIANO,N. 51
1878
Sulla riva sinistra di strepitoso torrente, appiè di una ridente collina, siede la piccola e graziosa città di Platì, nell’estrema Calabria, la quale ebbe origine due secoli fa dall’aggregazione di case coloniche in un prato (1) del principe di Cariati. Vaga e deliziosa oltre ogni dire è la contrada: perciocché pittoreschi monti, stupende cascate di fresche e limpide acque, colli ricchi di messe e di vendemmia ed ubertose convalli, popolate di gelseti e oliveti e ovunque smaltate di fiori, la circondano di un incanto indefinito e la profumano di un’ aria delicata gentile. E se a tali bellezze io aggiunger volessi la intelligente operosità e la bontà di animo dei popolani, l’affabile carità dei Signori, la onestà e semplicità delle donne, presenterei lo schizzo del mio caro luogo natio.
A mezzodì, poco discosto dall’abitato, sorgeva anticamente una chiesetta, dedicata a S. Pasquale, sufficiente ai coloni che vi andavano a udir la messa nei dì festivi. Divenuta poi incapace se ne costruì un’altra più grande nel punto più bello del paese, e la chiesa di San pasquale fu abbandonata senza tetto e senza imposte all’impeto delle procelle e dente edace del tempo. Ora nel suo interno crescono rigogliosi i fichi selvatici e le ortiche ed i fori dei suoi muri neri neri e cadenti son divenuti dimora di lucertole e di ramarri. I viaggiatori, che per la prima volta battono l’attiguo viale, imbalsamato dai profumi degli aranci e dei limoni degli porti circostanti, si fermano a contemplare quei suoi sacri avanzi, e sembrano fanciulli che, ritti innanzi ad un vecchio spossato dagli anni ed abbandonato sur una verde sedia a braccioli, vorrebbero udire da lui medesimo la storia del suo passato. E la sera del due novembre del 1754 si videro nei dintorni dell’abitato certi uomini dalle vesti lacere, dal viso sparuto, dalla guarda tura sospetta. Costoro domandarono della chiesa di S. Pasquale, e la dimane se ne trovò il suolo qua e là scavato. Chi erano essi? di che cosa andavano in cerca?
A settentrione di Platì sorge una linea di montagne, che separa il circondario di Palmi da quella di Gerace, e che, quasi un istmo, congiunge l’estremità dell’Appennino al famoso Aspromonte. Sul fianco meridionale di queste montagne si apre la profonda ed inospite valle di Praca, la quale resta a destra di chi, partendo da Platì per andare in Oppido, incomincia a salire. I pini, i faggi, gli abeti, i frassini, i cerri, le querce, i lecci, la rendono cupa, scura; una fitta boscaglia la fa solo accessibile alla volpe, al cinghiale ed al lupo, il cui ululato frammisto al monotono e lugubre canto del cuculo e del gufo ed al fragore del vicino torrente, produce un senso d’indicibile terrore. Circa quattro lustri innanzi l’epoca suindicata, questa valle fu il covo di due terribili briganti, Bartone e suo genero Francesco. Era Bartone un uomo su i quarant’anni, di statura alta, robusto oltre ogni credere, provato a tutte le fatiche. Tracce di profondo dolore e d’indomata collera stavano sul volto di lui. Pareva un leone ferito, sitibondo ancora di sangue, quantunque bevuto avesse sino all’ultima goccia quello del suo feritore. Francesco, giovane a venticinque anni, giusto della statura, vigoroso delle membra, mostrava con la sua melanconica, ma simpatica fisionomia, che non era nato pei boschi. Entrambi erano stati spinti al delitto dall’umana malvagità. Bartone, colono di un prepotente signorotto di Serra, portava ancora la barba lunga e la pezzuola nera al collo, segni di lutto per la morte della povera moglie. Il solo oggetto che gli empiva il cuore d’ineffabile gioia, era l’unica e virtuosa sua figliuola, Concetta, che a diciotto anni divenne la sposa di Francesco, il quale si unì al suocero, attendendo con lui alle faccende di campagna, e vivendo ambedue per la diletta figlia, per l’amata consorte. Contenti del loro stato, nulla mancava alla loro felicità, ma, ahimè, di quanta breve durata! Il malvagio signore s’invaghì della Concetta che, oltraggiata violentemente, morì di crepacuore. Il padre e lo sposo ne fecero pronta vendetta, lavando l’oltraggio nel sangue dell’oltraggiatore, e quindi cercando asilo nei boschi, lo ritrovarono nella valle suddetta.
Il luogo non poteva essere meglio scelto. La parte occidentale del Circondario di Gerace abbonda specialmente di olio e di seta, prodotti che debbonsi trasportare a Gioja ed a Villa San Giovanni per esser venduti. Non essendovi allora altra via, dovevano per necessità percorrere quella che era fiancheggiata dalla valle di Praca, e quando i venditori ritornavano ai loro paesi col prezzo delle merci vendute, venivano assaliti, derubati; spesso lasciati cadaveri, erano di spaventevole ingombro ai notturni passeggeri.
Anche i tempi volgevano loro propizi. I fatti, cui accenniamo, succedevano quando l’infante D. Carlo si accingeva a cacciare gli Austriaci dal regno di Napoli; quando le leggi erano ancora barbare, numerosissime, assurde; la giustizia, nome vano per la prepotenza e i privilegi dei signori; i delitti, innumerevoli.
I due briganti per vie di assassinii, avevano accumulato molto argento ed oro, che pensavano nascondere in qualche luogo designato, per ritrarlo poi quando sarebbero ritornati alla civil società, e menare così vita agiata e farla da signori anch’essi. Il luogo destinato a nascondere il mal acquistato denaro fu un canto della già abbandonata chiesa di S. Pasquale, e per effettuare il loro disegno, aspettavano una di quelle tempestose notti d’inverno, in cui tutto per la campagna è solitudine e tenebre.
In quell’anno, nel mese di novembre si desiderava ancora la pioggia. Pareva che la natura lo facesse ad arte per impedire che la terra divenisse complice dei malfattori, ricevendo l’iniquo deposito. Ma il bel tempo non poteva durare più a lungo, e finalmente si videro i segni del temporale aspettato. I contadini calabresi non hanno, e molto meno avevano allora, il barometro per conoscere l’avvicinarsi del cattivo tempo; hanno invece indizi tali che non sono men sicuri. La povera donnicciola anche stando a filar la sera nel suo tugurio, si accorge della vicina pioggia, quando vede che l’olio, montando in cima della lucerna, ingombra il lume, e, scintillando, vien fuori a guisa di fungo. Gli agricoltori poi tornano frettolosi alle loro case, presentendo imminente la procella, quando vedono che un nero nugolone, parandosi innanzi del sole pria che tramonti, ne impedisce la vista; che d’ora in ora un buffo di vento scuote con violenza le fronde degli alberi, e percorre la terra, cacciandosi innanzi turbini di polvere mossa.
Una sera Bartone e Francesco uccisero un montone, buttaron via le interiora, la testa e i piedi, avvolsero nella pelle la carne fatta a pezzi condita con sale e nipitella, la posero sotto un mucchio di terra, e vi accesero sopra un gran fuoco; e quando ne intesero l’odore, ne la trassero, e si misero a mangiare. Mentre mangiavano, Francesco disse: Sta a vedere che saremo arrestati prima di seppellire il nostro morto! E Bartone: Non aver paura; la Madonna del Carmine, che ci ha protetti fin ora, non ci abbandonerà. Il cattivo tempo ormai non è lontano: in questi giorni ho inteso nel bosco un insolito romore, ho visto svolazzare per
l’aria fronde secche e sottili pagliuzze, le rane hanno raddoppiato il loro gracidare, torme di corvi vanno attorno empiendo l’aria di loro strida; e poi non vedi l’arcobaleno, là, come beve le onde per quindi riversarle! Il temporale dunque è vicino.
Difatti, la mattina seguente, le nubi si schierarono sulle cime dei monti, e sollevandosi e distendendosi man mano, oscurarono il sole. Verso sera spessi lampi rompeano l’oscurità cresciuta, i tuoni, scoppiando con fragore repentino, scorrevano rumoreggiando dall’una all’altra banda del cielo, e, a due ore di notte, la pioggia veniva già a secchie.
Era il momento opportuno, e Francesco passò tra i nodi, fatti con l’estremità di un cuoio di vitello, entro cui stavano ravvolti i danari, il lungo manico di una zappa, che si pose sulla spalla destra, e, preso commiato dal suocero, partì tra il rombo dei tuoni, il sibilo del vento e lo scroscio della pioggia.
Per giungere al luogo stabilito, doveva percorrere la via che costeggia il torrente, il quale era
repentinamente ingrossato, trasportando arena, sassi e tronchi di alberi schiantati. Ad un certo punto non potè andare più innanzi, ché l’acqua dilagata ingombrava la via, e rasentava una rupre tagliata a picco. Che fare allora? Abbandonare per quella notte, tanto aspettata, l’impresa, o passare dalla parte opposta, mettendo a rischio la vita? Francesco ritornò lentamente sopra una ventina dei suoi passi, poi si fermò.
Aveva visto in mezzo al torrente un grosso macigno, mediante il quale, con due buoni salti, poteva guadagnare l’altra sponda. Ben tre volte fece il segno della fede, trasse dal petto e baciò lo scapolare, si segnò ancora una volta, e spiccò il primo salto. Ma, e per il peso che portava addosso, e per l’oscurità della notte, non giunse a porre il piede sul sasso, e precipitò nel torrente. Del denaro non si seppe nulla mai più:
era farina del diavolo, e se ne andò com’è sul dirsi. Francesco poi la mattina seguente fu trovato cadavere sformato poco più giù della chiesa di S. Pasquale. Bartone lo aspettò con ansia sempre crescente il primo ed il secondo giorno, poi da alcuni pastori ebbe notizia del cadavere trovato, e dai contrassegni che poté averne, comprese che si trattava proprio di Francesco.
I Calabresi, siano pur briganti, hanno un cuore riboccante di affetto, e la perdita di un parente, di un amico, li addolora profondamente. E’ inutile quindi dire di quanta amarezza riempisse l’animo di Bartone la morte del genero.
Dal luogo in cui fu trovato il cadavere e dal non aver inteso del denaro, Bartone argomentò che Francesco fosse morto dopo averlo nascosto, ed una notte decise di andare ad accertarsene; ma nell’uscire dal bosco fu catturato da alcuni militi provinciali, che da qualche giorno si erano messi in agguato, e dopo alcuni mesi, veniva dal tribunale di Reggio condannato a venticinque anni di ergastolo.
Se la speranza è la stella polare della vita degli uomini, è tale specialmente pei carcerati. Bartone aveva una salute di ferro, credeva di vivere lungamente, sperava in una diminuzione di pena, mercé gl’indulti del re; ed in mezzo alle privazioni e ai dolori del durissimo carcere, il suo pensiero volava sempre al tesoro della chiesa di S. Pasquale. Ma gl’indulti non vennero, il peso dell’età si faceva sempre più grave, ed al ventesimo anno della sua prigionia era colto dalla morte.
Pochi momenti prima di morire, Bartone rivelò ai suoi compagni di pena il segreto del tesoro, fin allora gelosamente custodito; e la sera del due novembre del 1754 si videro nei dintorni di Platì certi uomini dalle vesti lacere, dal viso sparuto, dalla guardatura sospetta. Costoro domandarono della chiesa di S. Pasquale, e la dimane se ne trovò il suolo qua e là scavato.
Quest’ultimo fatto si ripeté più volte, e potrebbe ripetersi ancora, giacché i carcerati conservano tuttavia la tradizione del tesoro di S. Pasquale; ma i tesori non si ritrovano con pochi colpi di vanga, sì bene coll’assiduo ed intelligente lavoro, col provvido risparmio.
FINE.
(1) da prati si disse Pratì e poi Platì
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