E questa storia che raccontiamo è storia del Sud. Storia d’altri tempi




Le immagini parlano molto più di ogni parola. E questa storia che raccontiamo con le immagini non è storia di un solo paese. E’ storia del Sud. Storia d’altri tempi. Perché questa di oggi si dipana in modo così contorto e così complesso da diventare oscura, imprevedibile nei suoi sviluppi, irrazionale in certi suoi aspetti.  La storia di ieri rimane invece composta fra le sue lucide pieghe così da apparire una leggenda naturale, genuina, di un popolo chiuso nel suo dramma, austero nel suo dolore. Un’atavica rassegnazione al destino. Incessanti migrazioni di pastori alla scoperta di pascoli floridi, perenne transumanza. Ricerca di precarie occupazioni alla mercè di qualche famiglia di nobile casato. Attesa di un aiuto sociale ingannando le ore in “piazzetta”. E poi… partenze. Partenze mattutine verso l’America, l’Australia, accompagnate dal pianto disperato di chi restava. Era come morire. Perché in ogni caso a Platì non si poteva più ritornare. Questa la storia che si consumava giornalmente nella vallata ai piedi dell’Aspromonte. Chi restava non avrebbe posseduto più altri orizzonti per sempre. Solo “Pietra Kappa”, avvolta in misteriose leggende e la marina, laggiù, l’unica porta aperta verso il mondo. Chi partiva avrebbe invece scontato con il duro lavoro e l’insopprimibile nostalgia il “tradimento”. Perciò si partiva con le lacrime agli occhi, di notte, sfuggendo allo sguardo del paese ancora addormentato. Ma non è tutta qui la storia di ieri.  C’era pure il sereno ricorso alla “Messa Parrocchiale” della domenica per guardarsi tutti in faccia, quasi a verificare che la fede in Dio era viva e presente, nonostante tutto. E le processioni mai disertate, perché la Madonna “du Ritu” o San Rocco avrebbero dovuto vigilare e proteggere quell’amara esistenza. Quella fede aveva bisogno anche di segni e talvolta sconfinava fino a sfiorare la magia. L’importante era credere. Così tutti accorrevano, nel caso di una frattura delle ossa alle cure della “gnura Santa”. E nessuno se ne tornava insoddisfatto. Ella allungava il suo braccio e toccava con le sue mani la sede del trauma, misteriosamente, quasi a ricomporre l’integrità dell’osso. La guarigione era sicura, di lì a pochi giorni. Dicono che a questa misteriosa capacità non aveva rinunciato nemmeno mentre assisteva alla veglia funebre, dinanzi al cadavere della propria madre. Avevano portato un bambino e Lei senza voltarsi aveva allungato la mano compiendo la sua opera. C’era in quella storia l’ingratitudine della natura che con il suo alluvione del 1951 aveva tentato di cancellare per sempre il paese. Un’intera popolazione piegata dal dramma, sconfitta, inerme dinanzi quell’enorme fiume d’acqua incombente. Qualcuno era pure morto nell’attraversare il ponte sul fiume. Le cicatrici di quel disastro rimangono tuttora, come rimane la montagna ricca di alberi e di fresca acqua che anche oggi, d’improvviso, si tramuta in franoso dirupo e scende a valle per distruggere ulivi e pascoli. Storia era pure quel vento serale, immancabile, pronto a fugare le preoccupazioni e i problemi di una giornata faticosa. Era pure la voce del vecchio pastore, confuso a sera con il suo gregge, di ritorno dalla montagna: la voce del padre-padrone che anche qui tuonava a richiamare il figlio ad un’antica legge, quella dell’emarginazione e di un dovere trasmesso per eredità.

Mimmo Barbaro (di Cicciu i Santa)

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