storia "da gnura Santa", un racconto platiese


Angelina Sergi ha 93 anni, è nata il 22 agosto del 1928. In quell'anno il poeta Giacomo Tassone Oliva componeva mare di Pizzo, moriva il letterato Eberto Vincenzo Zappia (1861) autore, fra le diverse cose, di Studi sulla vita nuova di Dante (Roma 1904); nell'aprile dello stesso anno il Cav. Dott. Giuseppe Galatti veniva nominato, con regio decreto, podestà del comune mentre in ottobre mons. Giosafatto Mittiga si dimetteva dal titolo di arciprete, ma di questo racconterò un'altra volta. Torniamo alla signora Angelina, "terapista" di Platì, o meglio capace di "stricari" (non saprei come altro dirlo), di stricare quindi massaggiare quei stiramenti, slogature, distorsioni e lussazioni varie rimettendo muscoli e legamenti al loro posto. 

Avevo circa 15 anni quando il mio collo si era bloccato dopo un crak lasciandomi voltare solo da un lato. Li mi affidai allo stricari di un'anziana donna del paese che "rilassò" splenio e scaleni irrigiditi da diversi giorni. L'obolo era consistito in due pani appena sfornati, soldi non sarebbero stati accettati.

Forse sto divagando ma tutto c'entra. Torniamo a noi.

Ebbene a gnura Santa era la bisnonna di Angelina ed è lei che ha raccontato e racconta quanto vi voglio narrare.

A gnura Santa, al secolo Santa Caterina Raffaella Blefari, era nata a Casignana da Paolo, massaro di buoi ed Elisabetta Mavrici, il giorno di tuttiSanti del 1825. Da poco sedeva sul trono di Napoli Francesco I di Borbone. I massari allora praticavano e vivevano la montagna in maniera assidua. La montagna li ha sempre avuti camminanti ora per commercio, ora per comparaggi, ora per matrimoni fra le corrispettive famiglie dei vari paesi. La montagna era luogo di incontro, era paese, contrada di culti ancestrali e riti di passaggio. Sede di dispute e amnistie, cattedrale dove si ergevano maestose colonne di castagni, faggi e querce, testimoni laconici di sponsali e patti. Quello del pastore è il primo mestiere di Platì. Dio il pastore l'ha chiamato in prossimità dell'alba, caricandolo già di pensieri. I registri strabordano di garzoni di masserie, di forisi, bovari e massari. Le gerarchie si rispettano, a ognuno il suo. La donna filatrice, casalinga, cariatide domestica rispettava i canoni. Al garzone il sonno di gatto nella pinnata. Al massaro era affidata la gestione di un appezzamento di terreno in base a un contratto di locazione stipulato su base triennale o novennale e rinnovabile allo scadere dei termini. Ripartiva fra i figli , gli altri parenti e i garzoni conviventi i compiti da svolgere sulla terra e in casa. Il massaro, nella mia mente appare con l'accetta appesa alla spalla e come grande bevitore di vino. Aveva di solito attrezzi e animali di sua proprietà. Ma ciò che contava maggiormente era la capacità di coordinare un gruppo di lavoro numeroso e solidale, costruito sui legami di sangue che univano l’aggregato domestico*. Fra le tante famiglie, una delle più antiche nella storia di Platì è quella dei Catanzariti, cognome presente sin dalle origini e da quanto ho potuto ricostruire, grazie anche alle ricerche di Pasquale Catanzariti (cl. '78), la nostra storia comincia con Antonio nato nel 1696, che generò Domenico, che generò Brunone (tra l'altro mio antenato), che generò Pasquale, massaro di buoi, che generò Domenico.  

Era stata in una delle tante adunate "massaresche" che il massaro Domenico Catanzariti, aveva conosciuto la giovane Santa; 27 anni lui, 20 lei. Domenico era già stato sposato, la prima moglie era stata proprio sua omonima, Domenica Catanzariti e di questo non c'è da stupirsi vista la storia del paese. Avevano avuto un bimbo, Saverio, rimasto quindi orfano di madre alla tenera età di 3 anni. Era stata Santa a crescerlo come figlio suo dopo il matrimonio del 1845. Domenico e Santa avevano avuto altri 11 figli (inclusi i 3 morti prematuramente, come spesso accadeva all'epoca) e fra questi i due gemelli Andrea e Pasquale messi alla luce nell'inverno del 1854, il primo dicembre. Quell'anno era già iniziato con funeste vicende: nel mese di marzo una donna, sorte vuole fosse un'altra Domenica Catanzariti, moglie di Agresta Francesco, di ritorno da Oppido fu colta nella località chiamata Sava da un'esuberante nevicata, trovando la morte. Nel maggio dello stesso anno Barbaro Domenico di 35 anni, detto prochilo, cadeva da un albero precipitando lungo la timpa di Rafele. Forse moniti dalla montagna che di tanto in tanto chiede all'uomo un'immolazione, anzi la montagna non chiede. Prende!

Gli anni passavano scanditi dalla terra e dalla vita del bestiame. Fra i due gemelli Andrea sembrava quello più brioso. Poco più che venticinquenne si era innamorato della giovane Rosa, di 11 anni più piccola. Figlia anch'essa del massaro Michele Romeo e di Caterina Catanzariti. La gnura Santa fremeva di giungere ai preparativi per il matrimonio che arrivarono ai primi dell'anno del 1883. I due massari avevano convenuto, che era tempo di convogliare a nozze, sigillando i propositi con una bottiglia di Cirò e del formaggio caprino. In paese c'era tutto quanto serviva ma arretu marina una maistra si era fatta conoscere fra tutti i paesi dell'Aspromonte per la sua abilità nel cucire vestiti su misura nonché per i modici prezzi. Rosa avrebbe indossato l'abito della madre, ben custodito nel grande baule tra fiori di lavanda e alloro, cambiati periodicamente. Ma per Andrea serviva far visita alla maistra che risiedeva a Oppido ed è così che le due consuocere, con i rispettivi mariti e il giovane, avevano deciso di andare a trovarla. Nonostante il freddo si era concordato di partire all'alba, quasi cinque ore di cammino attraverso la strada mulattiera. A metà mattinata una pausa per fare marzeju con minestra, avanzo della sera prima, sarde fritte e peperoncini, il tutto preparato dalle abili mani di Santa e Caterina e riposto nella vertula di lana di pecora nera. Dopo aver fatto ancora una sosta a Piminoro fra amici, giunti a Oppido, riuscirono, le donne, nei loro intenti. L'abito piaceva tanto alla madre quanto alla consuocera e Andrea non aveva spiccicato parola, non ce n'era stato bisogno innanzi al verdetto delle massare.  Giusto il tempo di rifocillarsi che si erano già messi sulla strada del ritorno. In montagna la notte arriva in anticipo. A Piminoro stavolta i massari sono trattenuti in bottega dagli amici. Erano massari di grandi masserie - racconta Angelina - erano ben conosciuti. Alle donne i continui brindisi avevano cominciato a sfibrare la loro matriarcale pazienza e le due consuocere sentenziarono che non potevano tergiversare oltre; desideravano raggiungere le loro case prima di notte. S'incamminarono su consenso dei mariti. Non era la prima volta che praticavano quei sentieri montani. Quei percorsi appartenevano loro come ai loro padri ma la bellezza della montagna racchiude rischi e sconvolgimenti intrinsechi alla sua stessa natura. Una forte nevicata era giunta di soprassalto rendendo la via improvvisa e incerta. Le donne camminavano seguendo più una remota traccia di intuito. Una sensazione piuttosto che l'orientamento ormai smarrito e una antica inquietudine si era risvegliata in loro. Il più ancestrale tremore, primigenio fra i sentimenti, la paura, assisteva ora quei passi. Tutta la foresta era di un bianco annebbiante e fra l'opacità del tramonto, il turbinio fioccare della neve e la folta vegetazione ogni passo ora era titubante e il sentiero turbato. Lo sgomento imperversava, non le gioie del paese, il piacere dell'attesa di una ruga e di una numerosa famiglia, il via vai dei ragazzini al numero 17 e 27 delle case situate in

via montagna, rispettivamente di Santa e Caterina, non tutto ciò ma l'angoscia davanti l'incertezza.  Caterina, 50 anni, più giovane di 8 di Santa era stata la prima a cedere. Si era accasciata insistendo che Santa continuasse ad andare avanti. Sola nel gelo aveva disteso la sua mantellina per poggiare sopra, un coltellino (nu tronchineiu), una chiave e dei paternostri. Per allontanare le tentazioni maligne, così racconta Angelina.
Forse gesti di antichi rituali e vecchie superstizioni disperse nel tempo. Santa si era portata avanti, ci aveva provato ma a quasi un'ora di distanza dal paese anche lei si era piegata sulle ginocchia e rassegnata, si era abbandonata all'abbraccio del gelo. 

I tre uomini nel frattempo si erano incamminati con il progetto di raggiungere le donne. Ma lungo il sentiero non vi era traccia e solo al paese si era appresa la notizia che a gnura Santa e Catuzza non erano mai giunte. Ed è stato li che il giovane Andrea si era lanciato in una corsa contro il tempo, contro il gelo tagliente e contro la malasorte. In una corsa dell'ultimo minuto si era immolato tornando indietro, nel sentiero che pensava avessero potuto percorrere la madre e la futura suocera. Il cuore gli andava all'impazzata da scoppiargli in petto. La gente del paese che intanto tutta si era mobilitata, forisi e garzuni dei massari, l'avevano trovato steso e una goccia di sangue gli si era congelata sulle labbra. Catuzza, era ancora viva, senza fiato ma viva. Avevano tentato di rianimarla portandola in un rifugio vicino. Era stato talmente forte il suo desiderio di parlare che in quegli ultimi sforzi aveva rotto i lacci del busto. Nelle sue ultime parole avevo chiesto che il matrimonio si facesse. Non poteva sapere che lo sposo non c'era più così come non poteva saperlo Santa, che in un'ultima preghiera al cielo si era addormentata li dove tutt'oggi viene chiamato col suo nome. Il prete nell'atto di morte aveva riportato che iter faciens per montes huius loci Platì ingente copia nivis suffocata clausit suum diem supremum - soffocata dalla neve ha chiuso il suo ultimo giorno. A gnura Santa che tanto si era fatta volere bene venendo da fuori paese. Che già prima di giungere era conosciuta per le sue doti di guaritrice. Poggiava le mani dove i nervi si erano accavallati rimettendoli a posto o aggiustando addirittura fratture. Anche lei stricava. Una dote naturale. Santa che era stata moglie di massaro e madre di pastori giaceva nel bianco della neve nel nero di un giorno di inverno. Era il 25 gennaio del 1883.

Un anno dopo Rosa sposava Pasquale, il gemello di Andrea per rispettare il volere e il desiderio espresso dalla madre Catuzza, per rispettare la morte e dare senso alla vita che va avanti. I loro discendenti hanno garantito la memoria di quest'episodio, rimasto vivo generazione dopo generazione. In nuovi parti gemellari che ogni qual volta rimandavo a quella storia, in tutte le nuove fanciulle che porteranno il nome di Santa ma soprattutto nella capacità, anzi in quel dono che caratterizzava a gnura Santa. L'arte di guarire con le mani. Dote trasmessa da madre in figlio fino a Angelina.



Si ringrazia per questa bellissima storia antica, la signora Angelina Sergi che ha raccontato e continua a raccontare. La sarta Caterina Trimboli che ha avuto l'idea di intervistare e registrare Angelina. Rosa Barbaro Santaguida che dall'Australia ha contribuito alla ricostruzione della storia. Pasquale Catanzariti di Antonio, il primo che mi ha introdotto in questo racconto dei suoi antenati.



*Storicamente, laboratorio di storia, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna


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