I cinque martiri e i centomila falsi braccianti


Nel 1847 vennero fucilati nei boschi «i ragazzi italiani» Nelle stesse terre dove «la mafia perfetta» amministra la Grande Truffa agricola


Si chiamava Rocco Pierri ma tutti lo chiamavano «Rocco ’u frac» perché, quella volta che lo Stato aveva mandato giù un paio di camion di vestiti usati dopo l’alluvione che nel 1951 si era portata via mezza Platì, aveva recuperato un vecchio frac da orchestrale con le code a nido di rondine. Che da quel momento aveva tenuto addosso anche quando andava a zappare nei campi. Un uomo da leggenda. Ma la storia è vera.

Che la moglie di un notaio della costa ionica andasse a raccogliere le olive dopo aver appeso all’attaccapanni una pelliccia di visone, però, gli ispettori dell’Inps non potevano bersela. E il suo interrogatorio è entrato nel mito. Al punto che i funzionari dell’istituto di previdenza raccolti nell’Aniv e riuniti proprio in questi giorni a Isola Capo Rizzuto, lo raccontano come fosse una novella pirandelliana: «Quindi, Signora, lei raccoglieva le olive». «Certamente, ispettore.» «Dagli alberi?». «Dagli alberi, ispettore.» «E come le raccoglieva?» «Con la scala.» «La scala?» «Una per una. E mano mano le pulivamo con lo straccetto». «Ma signora, nessuno al mondo raccoglie le olive così!» «Così noi le raccoglievamo. »

Ne hanno sentite di tutti i colori, negli anni, gli investigatori Inps. Finte braccianti agricole che dicevano di aver innaffiato i campi di grano con la canna. Finte braccianti agricole che giuravano di aver portato secchi d’acqua, uno a uno, su per la collina per dar da bere alle melanzane. Finte braccianti agricole che assicuravano di aver lavato le stalle col detersivo per i piatti. Finte braccianti agricole che cadevano nei tranelli più impensabili: «che tipo di olive erano: rotonde o quadrate?» «Quadrate, ispettore. » Da ridere, se la truffa dei falsi braccianti agricoli non derubasse allo Stato decine e decine di milioni di euro l’anno.

Basti dire che nella città del grande Giuseppe Di Vittorio, Cerignola, in Puglia, due soli «imprenditori », marito e moglie, fondando tre finte società e fingendo di assumere un totale di 6.851 dipendenti, si sono impossessati di 20 milioni e 553 mila euro. Dimostrando una volta per tutte come quella dei falsi braccianti agricoli sia una truffa catalogabile solo in parte, sempre più secondaria se non residuale, come l’antica distribuzione di una specie di salario a poveracci che vivono in posti dove non c’è industria. E sempre di più, al contrario, come uno dei grandi business della malavita. In questo caso la ’ndrangheta. Un’intercettazione tra due trafficanti di droga finita agli atti di un processo dice tutto: «Guarda che arriva un carico grosso. A soldi siete a posto?». «Occhei, prepariamo le carte per l’Inps».

Nelle zone appena all’interno di questa costa ionica della Calabria, c’è chi ancora vive una vita agra. Così come resiste, faticosamente, un’agricoltura pulita. Di gente perbene che arranca quotidianamente nel fare i conti con una società che ha sempre meno spazio e sempre più disprezzo per loro. Contadini che continuano ad arare e seminare e maledire il cielo e spaccarsi la schiena su terreni duri sempre più invasi dall’edilizia aggressiva, sgangherata e volgare che dalla costa, un tempo stupenda e oggi devastata da una speculazione selvaggia dove non è neppure chiaro cosa è abusivo e cosa invece edificato legalmente grazie alla complicità delle amministrazioni locali, sta azzannando ettaro per ettaro la campagna.

Toglieva il fiato a guardarla, una volta, quella costa, dai paesi arroccati sui contrafforti dell’Aspromonte. Come Gerace, che forse è un po’ pomposa nel definirsi «la Firenze del Sud», ma certo con le sue chiese e le cappelle e i vicoli di pietra e le piazzette assolate e le porte che si spalancano sul mare sembra un pezzo di Toscana assediata dalla cialtroneria urbanistica degli ultimi decenni. Quella che Giorgio Bocca, nel libro «L’inferno», descrisse come un ammasso di porcherie cementizie in cui spesso, come a San Luca, si poteva immaginare come fosse «un paese di sequestratori»: «lo si vede dalle sue case, molte rimaste a metà, a un terzo in attesa di nuovi riscatti, pareti di mattoni traforati che attendono gli intonaci, pilastri di cemento per cui si vede la montagna bianca».

Certo non erano queste la Locride, la Calabria, l’Italia che sognavano Michele Bello e Pietro Mazzone e Gaetano Ruffo e Domenico Salvadori e Rocco Verducci, i cinque ragazzi che il 2 ottobre 1847, in nome della bandiera tricolore, si fecero fucilare dalle truppe borboniche a mezza costa sotto il paese, in un boschetto dove oggi sorge un monumento assai trascurato. L’ultima lettera di Mazzone alla fidanzata era gonfia di amore: «Cara Eleonora, sposa di quest’anima… Mostrati coraggiosa e rassegnata al mio destino come sono io…». Lo storico locale Roberto Muscari Tomajoli ci scrisse una poesia: «"Viva l’Italia!" gridanu a gran vuci / L’hannu jettati cu li spalli a terra; / L’hanno ammazzati tutti, là a la croci».

Anche adesso è piena di croci, questa terra. Troppe. Dovute non alla rabbia dei borbonici o dei bersaglieri, che a Platì si spinsero nel 1861 a tagliare la testa al capo dei contadini in rivolta Ferdinando Mittiga e a conficcarla su una picca portata in giro per il paese, ma alla ferocia di quella che l’antropologo Mauro Francesco Minervino, nel libro «La Calabria brucia», ha definito «la mafia perfetta». La «più ricca e più potente del mondo» che con un «sistema di scambio "cazzi miei / cazzi tuoi"» domina «senza oppositori la regione dichiaratamente più povera, disperata e disamministrata d’Europa».

Certo, il nuovo vescovo di Locri, Giuseppe Fiorini Morosini, non ha ripetuto il gesto dirompente di Giancarlo Bregantini, che appena arrivato fece diffondere nelle parrocchie l’elenco coi nomi e i cognomi di tutte le 263 persone ammazzate negli ultimi anni, seguito dal libro di preghiere di «sfida alla mafia». Sulla guerra del predecessore contro «l’ idea aberrante di un destino ineluttabile per cui in Calabria tutto è sempre stato e tutto sempre sarà così», però, dà battaglia tutti i giorni. Come nel messaggio a tutte le signore delle ’ndrine in occasione della Festa della Donna: «Fermate i vostri mariti e i vostri figli eventualmente coinvolti nel traffico o smercio della droga: pensate a quelle donne, mamme come voi, che versano lacrime vedendo i loro figli distruggersi lentamente e morire… ».

E la politica? Assente. Latitante. Piegata con rare e virtuose eccezioni alle convenienze, alle clientele se non al voto di scambio. Al punto che a Platì, per fare un esempio, le persone perbene che vivono in ostaggio delle prepotenze dei don Rodrigo malavitosi e dei loro bravi rimpiangono già i commissari prefettizi, gli unici ad essersi dimostrati in grado, a fronte di un comune sciolto per tre volte negli ultimi dieci anni per infiltrazioni mafiose, di dare finalmente una caserma decente ai carabinieri che fino a pochi mesi fa vivevano barricati in un appartamento nel cuore del paese.

E’ dura, essere cittadini a Platì. Durissima. Ne sanno qualcosa gli animatori della Cooperativa Valle del Buonamico, nata per iniziativa di Bregantini (che si vide intralciare la richiesta del certificato antimafia: lui, un vescovo trentino!) con l’obiettivo di strappare i figli alle cosche dimostrando loro che era possibile vivere nella legalità e guadagnare decentemente coltivando fragole, mirtilli e lamponi a dispetto della ottusità degli uffici capaci di chiedere 24 passaggi burocratici. Un calvario.

Quel che è sicuro è che, nel vuoto pneumatico della politica, la supplenza viene esercitata ancora una volta dalla Chiesa. Basti leggere il grido d’allarme lanciato da monsignor Morosini in una lettera aperta a Napolitano, Berlusconi e tutte le autorità dello Stato. Dove denuncia come la Locride sia «un distillato di emergenze economiche e sociali». Certo, «qualche intervento è stato fatto, soprattutto nell’azione repressiva della delinquenza organizzata, e siamo grati», scrive il vescovo, ma «i piccoli centri, abbandonati a se stessi per i tagli o la soppressione dei servizi essenziali, scuola e sanità, vanno lentamente scomparendo», «certe strade degli stessi paesi costieri sono da terzo mondo», «le scuole dell’obbligo di anno in anno vengono soppresse», «l’organico della Procura è stato ridimensionato pesantemente» nonostante la ’ndrangheta…

Ed è qui che torniamo alla Grande Truffa dei falsi braccianti. Che vedono i loro punti di emergenza, come dimostrano i dati degli ispettori Inps presieduti da Fedele Sponchia in alcuni comuni a forte radicamento mafioso: Africo Nuovo (577 braccianti su 3.465 abitanti), Oppido Mamertina (1.050 su 5.559), San Luca (1.266 su 4.106). E poi Platì, dove i lavoratori agricoli sono 2.030 su 3.823 anime, ovvero il 53% dei residenti, e Careri, paese nel quale i braccianti sarebbero addirittura 1.701, il 70% di una popolazione che conta 2.443 persone. Ma come si è arrivati a questo?

All’inizio la disoccupazione agricola era una forma di integrazione artigianale al reddito. Si pagava un modesto contributo previdenziale e ciò bastava per ottenere l’assegno. Talvolta a vita. Il sistema che fu introdotto nel 1969, quando al Nord la classe operaia andava in paradiso e nelle campagne del Sud c’era ancora la miseria più nera, era tale che pur risiedendo a Milano, Torino, oppure all’estero, si restava iscritti alle liste dei braccianti, continuando a incassare la relativa indennità di disoccupazione. E maturando i contributi figurativi per la pensione. Va da sé che negli anni è stato possibile ogni genere di abuso. Non sono stati rari i casi di operai meridionali delle grandi fabbriche del Nord i quali al momento di andare in pensione si ritrovavano doppia razione di versamenti previdenziali: occupati a Mirafiori, risultavano braccianti disoccupati in Calabria.

Un meccanismo micidiale, giudicato universalmente come «una cosa legale, basta far le carte », con l’assunzione fittizia di figli, nipoti, generi e nuore. Per giustificare la truffa bastava un pezzettino di terra incolto. Finché per fabbricare i falsi braccianti non è stato necessario avere una dimensione «aziendale» (formalmente, si capisce…) e c’è stato il salto di qualità.

L’occasione, per le ’ndrine, era troppo ghiotta. Per aver diritto a una indennità di disoccupazione pari al 40% dello stipendio, basta denunciare all’Inps 51 giornate lavorative l’anno per due anni: 102 in tutto, pagando i relativi contributi. In Calabria, zona depressa, scontati del 68%. Invece di pagare il 44% del salario, si paga cioè il 14%. Facciamo due conti: un bracciante con uno stipendio fittizio di 800 euro al mese avrà diritto a un’indennità di disoccupazione di 320 euro al mese, circa 4.000 l’anno, versando all’Inps 224 euro di contributi. In due decenni avrà speso 4.500 euro e ne avrà incassati 80 mila. E dopo vent’anni c’è pure la pensione. Non commisurata, si badi bene, ai 320 euro al mese. Ma agli 800. Come un tredici al totocalcio. Per non parlare della maternità, perché alla lavoratrice agricola in dolce attesa che figura iscritta all’Inps, spettano fino a 11 mesi di stipendio. E anche qui si è visto di tutto. «Miracoli » compresi. Come l’avvento di una donna capace di partorire due volte in quindici giorni. Non ci si può stupire, perciò, se in Calabria il rapporto fra contributi incassati e prestazioni pagate, fra disoccupazione e maternità, sia pazzesco: paghi uno, in media, e prendi dieci. Se poi calcoli le pensioni, paghi uno e incassi trenta. Bingo!

E come meravigliarsi se, in un contesto simile, la truffa supera anche i confini dell’Inps? Un esempio: nel 2000 fu concesso un generoso credito d’imposta alle aziende che aumentavano l’occupazione: fino a 416 euro al mese per ogni nuovo assunto. Quando però hanno cominciato a fare i controlli si è scoperto, nel migliore dei casi, che chi aveva denunciato 20 assunzioni ne aveva fatte solo due. Nel peggiore, che gli stessi braccianti erano stati assunti da due o tre aziende diverse. E naturalmente non lavoravano da nessuna parte: «Ne abbiamo beccati che, di false assunzioni, ne avevano fatte cento!».

Ai finti braccianti, ovviamente, non va che una percentuale (ridotta) di tutti questi soldi: la fetta più grossa se la mettono in tasca le cosche. Nessuno conosce esattamente la dimensione truffaldina del fenomeno, ma pochi dati dicono tutto. E’ normale che, fatta la tara alle dimensioni dei poderi, ci siano in Calabria 34.301 aziende agricole contro le 9 mila in Lombardia che ha il quintuplo degli abitanti? O che quaggiù i braccianti iscritti all’Inps siano 135.553 cioè uno ogni 14,7 abitanti, con una densità più di quattro volte superiore al resto d’Italia, dove se ne conta uno ogni 63?

Dovrebbe essere come la California, questa terra, con questi numeri. Una cornucopia traboccante di frutta, ortaggi, frumento e tutte le prelibatezze della natura. Macché. Basti pensare che in una regione meridionale come il Molise ci sono 44 ettari di superficie agricola utilizzata per ogni lavoratore iscritto, contro 3,8 ettari in Calabria. Quello molisano sarà un caso limite. Ma la media del resto d’Italia si aggira pur sempre intorno ai 14 ettari a bracciante: quattro volte più che nella regione di Giuseppe Scopelliti. Non basta. I braccianti calabresi iscritti all’Inps sono più di 135.553? Per l’Istat no: 35 mila. D’accordo, è un calcolo a campione. Non li hanno contati uno per uno. Ma le rilevazioni dell’istituto di statistica sono decisamente attendibili: si basano sulle osservazioni dell’economia reale. E se l’Istat ha ragione una domanda è inevitabile: dove sono i 100 mila braccianti che mancano all’appello?

Di più: di quei 135.553 braccianti calabresi iscritti all’Inps, quelli che incassano l’assegno di disoccupazione sono 100.757: il 74,3%. Una percentuale mostruosa. E unica. Semplicemente impressionante, poi, il rapporto con la popolazione. Se nel resto d’Italia c’è un disoccupato agricolo ogni 141 residenti, nella provincia di Catanzaro ce n’è uno ogni 31, in quella di Crotone ogni 19,8, in quella di Cosenza ogni 18,6, in quella di Reggio Calabria ogni 18,3, e in quella di Vibo Valentia addirittura ogni 17,1. Nella sola provincia di Crotone l’Inps paga un numero di indennità di disoccupazione agricola paragonabile a quelle di tutta la Toscana. A Catanzaro, fra le province calabresi la più «virtuosa», il numero dei braccianti disoccupati è pari a quello dell’intera Basilicata. Si dirà: è il Sud, sono province povere. E allora Isernia? Non è forse al Sud, e non è una provincia povera? Eppure, con metà degli abitanti della provincia di Crotone, Isernia risulta avere 240 braccianti disoccupati: quaranta volte di meno. Com’è possibile? E com’è possibile che a Frosinone, provincia con mezzo milione di abitanti più o meno come quella di Reggio Calabria, si paghino 171 assegni di disoccupazione agricola contro circa 31mila, cioè 180 volte di meno?

Ma non è finita qui. Perché questa falsa Calabria rurale ha anche un’altra particolarità: un numero spropositato, imparagonabile, di donne che risultano ufficialmente chine sulla zolla: 83.930. Si fa per dire, ovviamente: l’84,4% di loro, vale a dire 70.830, sono disoccupate. E la maternità, cui abbiamo già accennato? Sapete quanti «trattamenti obbligatori» di questo tipo sono stati erogati nel 2008 dall’Inps alle calabresi? Tremilasettantotto, il 27% del totale nazionale, pur avendo la regione un trentesimo degli abitanti. Inutile dire che il numero di puerpere braccianti di quaggiù risulta essere di gran lunga maggiore a quello di tutte le altre «colleghe ». In Piemonte sono state 119. In Lombardia, 97. In Sicilia 815.

Non che non si sia cercato di mettere un freno al fenomeno. Almeno in passato. Racconta Francesco Papa, ex dirigente generale dell’Inps: «Nel 1992 fioccarono migliaia di cancellazioni di braccianti che riscuotevano indebitamente la disoccupazione e la maternità. Tutti fecero ovviamente ricorso. Il problema fu che allora vigeva un curioso sistema di silenzio assenso: se la Commissione regionale incaricata di esaminare il ricorso non si pronunciava, il ricorso era accolto. Sapete come finì? Che la Commissione non si riunì praticamente mai e nessuno alla fine venne cancellato. Poi le regole sono state cambiate. Però…».

Questo è il nodo: saranno anche cambiate, ma l’andazzo non è migliorato. A cominciare da chi gestisce questo ignobile commercio di false marchette. Con un’odiosa aggravante: che i finti braccianti che fingono di lavorare su finti campi per finte aziende hanno diritto all’indennità di disoccupazione. E a quelli veri, come gli extracomunitari stagionali protagonisti della rivolta di Rosarno, non finisce un solo centesimo.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
05 ottobre 2010

http://www.corriere.it/cultura/speciali/2010/visioni-d-italia/notizie/16-gerace-rizzo-stella-martiri-braccianti_e16dbed6-d06e-11df-9b01-00144f02aabc.shtml

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