Platì, 25.02.2021 - Convegno: RADICI IN ASPROMONTE
Più che una lezione di storia, quello che io voglio fare oggi è parlare di storia ma sotto forma di racconti. Voglio offrirvi dei racconti che trovano la loro radice nell’essenza della terra come segno di appartenenza di un popolo, a una classe sociale se vogliamo, ma soprattutto come elemento distintivo della dignità dell’uomo lavoratore. Il titolo di questa giornata porta come incipit del discorso il nome di Caci il brigante o meglio Ferdinando Mittica di Platì. Prendiamo per un attimo tale figura come espressione sociale, come emblema o meglio come uno dei risvolti che scaturiscono dalle lotte legate alla terra spesso originate dai soprusi del signorotto di turno o puramente per questioni politiche. Ma partiamo soprattutto dal titolo di questa manifestazione Radici in Aspromonte. Dire radici significa andare in fondo alle cose. Io prima di essere uno storico sono archeologo di formazione e l’archeologia ha una bellissima similitudine con la vita: se vogliamo giungere al vero dobbiamo scavare. Prime delle lotte contadine del ‘900, prima della vicenda di Mittica, dobbiamo fare un salto nella Platì del 1700. Tolstoj diceva che “solo col lavoro agricolo può aversi una vita razionale, morale. L’agricoltura indica cos’è più e cos’è meno necessario. Essa guida razionalmente la vita. Bisogna toccare la terra.” Platì nasce da contadini, il primo cittadino del villaggio delle origini era un contadino. In uno dei registri parrocchiali, vi è un appunto che ci ha lasciato un arciprete dell’800 e cita: "Memoria: Il re Ferdinando d’Aragona nell’anno 1505 diede alla Casa "Cariati la foresta PRATI e BARBARA, e da quest'epoca in poi PLATI' riconosce la sua origine, perché i Principi di Cariati per richiamare della gente ad abitarvi concessero casa ed orto franco di censo (ossia canone)." Ecco che per il sorgere del villaggio, elemento cardine è stato proprio la terra, o meglio la possibilità di lavorare la terra e vivere del raccolto.
Premesso questo torniamo al nostro racconto: siamo a metà del 1700 e un gruppo di contadini si trova col proprio bestiame tra le foreste di Platì e dintorni. Un giorno come tanti alcuni di loro vengono presi d’assalto da un gruppo armato di bastoni e quant’altro. I primi sono cittadini di Platì e gli altri sono gli uomini al servizio del barone Francesco Coscia di Careri e visti i secoli che sono trascorsi possiamo tranquillamente menzionare nome e cognome:
Come possediamo questi nominativi? Come conosciamo questa storia? È un episodio che ai tempi ha avuto una rilevanza tale da finire davanti la regia corte ed ecco che nel 1762 vengono pubblicati tutti gli atti e la storia della vicenda. Ma qual è il punto della discussione? Perché questi cittadini di Platì si vedono attaccati dagli “armigeri” del barone Coscia? Ce lo racconta anche tale pubblicazione:
Ecco cosa succede: i cittadini di Platì ritengono che il territorio dove pascolare fosse promiscuo a quello di Careri e Natile e per le norme dell’epoca era possibile pascere i propri animali senza essere soggetti a tassazione. Ma il barone Coscia non sembra molto concorde al punto che contesta questa promiscuità territoriale raccontando che se vi è, è presente solo dal punto di vista sociale, ma forse non con Platì:
Per capire meglio la questione di questa presunta promiscuità serve fare un ulteriore salto nel passato, ed ecco che giungiamo alle origini di Platì:
Il caso è giunto a una conclusione. I cittadini di Platì da due secoli circa pascolavano in quelle terre senza subire tassazione finché, giunte in possesso della famiglia Coscia, il barone in questione pensò di lucrare maltrattando i platiesi non solo:
Quella dei soprusi del signore verso i contadini è una storia che trova le prime manifestazioni nel cuore del Medioevo quando si forma quella struttura sociale che tutti abbiamo conosciuto a scuola con il termine feudalesimo, struttura consolidatosi poi sotto uno dei sovrani più importanti del Medioevo, Carlo Magno. Ma torniamo a noi. Trovo di notevole importanza la pubblicazione di questi atti del processo per diversi fattori, come quello giuridico. Inoltre è determinante per ricostruire la storia delle origini di Platì. Pensiamo che da dall’atto di concessione del feudo alla famiglia Spinelli (1505) fino a metà 700 appunto, non vi sono pubblicazioni note che ci raccontano di Platì. Serve la terra, serve un episodio di prepotenza, di abuso del potere feudale affinché Platì trovi menzioni e riconoscimenti. Mi colpisce come, in un contesto dove il più forte fa da padrone, i contadini di Platì siano riusciti ad avere la meglio.
Passa circa un secolo e Platì ritorna nuovamente sotto i riflettori per uno dei casi più famosi della nostra storia passata, cioè quello di Ferdinando Mittica, conosciuto come uno dei briganti più importanti del Risorgimento meridionale. Ha come soprannome caci, termine antico che significa “cattivo”, ma prima di divenire ciò che lo ha resto famoso era un “don” di Platì. Questo era un appellativo che veniva dato agli uomini di chiesa, ai nobili, ai benestanti, ai proprietari terrieri. Il Mittica, (con la C e non la G) apparteneva ad una di queste famiglie. Il nonno, di cui egli portava il nome (e quindi qui possiamo già sfatare la diceria che si chiamasse Ferdinando in omaggio al re borbonico), era stato anche sindaco di Platì. Ferdinando Mittica nasce il 23 giugno 1826 e muore a Natile, il 30 settembre 1861, dopo aver cavalcato l’onda della rivoluzione.
Mi spiego meglio:
lo vediamo sulla scena sin dal moto del 1848 quando viene liberato dal carcere di Ardore dove si trovava per aver ferito un uomo con un coltello. Si tratta di quell’ondata di moti rivoluzionari conosciuti anche come Primavera dei popoli, sorti inizialmente in Spagna, nel 1820, con lo scopo di opporsi ai regimi assolutisti, e che attraversano poi tutta l’Europa culminando con quelli del 1848 (diciamo ancora fare un quarantotto per sottintendere scompiglio e confusione). Ma è durante l’anno dell’Unificazione che Mittica diventa il "famigerato brigante". Personaggio che ridesta l’interessa della corte spagnola al punto da inviare il generale catalano Borjes nel tentativo di una “reconquista”. Io quest’oggi non voglio soffermarmi sulle vicende brigantesche ma sottolineare come, e qui lo riporto più come una provocazione, secondo me ai primordi del malcontento del Mittica, più che un sentimento di patriottismo liberale, vi fossero dei dissidi sul possesso di alcune terre, fra la famiglia di questi e quella dei potenti Oliva, signori per eccellenza della Platì passata. È ancora la terra a fare da scintilla reazionaria e stando alla famosa legge di Newton, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria e forse questo è proprio il caso del Mittica il cui padre e i fratelli di questi, dovettero vendere, per un debito contratto del Ferdinando Mittica avo, i terreni denominati Palumbo e Margherita proprio a don Domenico Oliva figlio di Don Arcangelo. Questo avvenne nel 1828. Vi è una sentenza a mezzo della quale era stato incarcerato Ferdinando Mittica il vecchio. È in via di pubblicazione la vicenda che vede questo contrasto fra gli Oliva e i Mittica e sono autorizzato a parlarne dallo studioso Pino Macrì. Quindi è per una questione di terre e per insolvenza di un debito accumulato da parte dei Mittica che viene condannato il nonno del brigante. Questa è all’origine del contrasto. A Platì è successo quello che succedeva nel resto della Calabria laddove in quasi tutti i comuni si formavano due partiti antagonisti per interessi personali. Cioè se un partito si appoggiava a una determinata forza politica, di conseguenza l’altro partito sosteneva la forza politica avversa. La stessa cosa è successa, quasi certamente (in attesa di ulteriori sviluppi) a Platì. Pertanto c’è da domandarsi: e se gli Oliva si fossero schierati con i Borboni, i Mittica cosa avrebbero fatto? E questi sarebbe diventato il Caci che conosciamo oggi? La storia non si fa con i se ma ritengo sia fondamentale tener conto di questa vicenda e quindi ammettere che il legittimismo del Mittica non era puro e disinteressato ma era una reazione al fatto che gli Oliva avevano aderito all’Unità d’Italia. Scrive Mario La Cava nel 1986: La società del tempo era molto stabile, non consentiva facili cambiamenti di stato. Vi erano proprietari, le cui terre erano di origine feudale; e tra questi il più grande, Oliva, che aveva proprietà che da Palmi arrivavano ininterrottamente a Bovalino e a Locri, sullo Ionio. Quasi tutto il popolo, composto di contadini e di pastori, viveva delle sue terre. Famosi erano i formaggi locali che ora non si possono comprare a nessun prezzo, famoso il pane fatto in casa con una qualità di grano duro detto “dimini” di cui resta oggi solo il nome. L’olio, spremuto nei torchi a mano dalle olive nere piccoline, era leggero anche agli stomaci delicati. Vi erano i proprietari di origine borghese; e poi gli artigiani, numerosi e bravi. Il popolo era molto devoto alla Madonna di Loreto a cui è intitolata la chiesa del luogo. Certamente gli spiriti liberali non erano diffusi nemmeno tra gli esponenti più importanti delle classi civili. Garibaldi li convertì facilmente al suo passaggio; ma poi, fin dal 1861, sorsero condizioni perché i borbonici trovassero in Mittica un capo per guidare la guerriglia. A lui si unì il generale spagnolo Borjes, per raggruppare le forze della campagna anche risorgimentale, che passò alla storia come brigantaggio politico o comune. Il Mittica fu preso e ucciso; la sua testa, ficcata su una pertica, fu portata in giro per il paese.1
Per scrivere certe storie, a volte, ci vuole tempo, il tempo della distanza, il tempo della sedimentazione degli avvenimenti. Il tempo per leggere e rileggere più volte i fatti da punti di vista diversi, mettere in discussione i luoghi comuni ed illuminare con una luce nuova il buio delle chiacchiere. Serve il tempo giusto per osservare gli avvenimenti dalla giusta distanza.2
Ecco quindi un’altra storia nella storia che trova il suo stato embrionale nelle intricate questioni terriere di un piccolo paesino dell’Aspromonte.
È sempre di questo periodo quello che viene raccontato nella famosa pubblicazione di Francesco Perri, lo scrittore di Careri, cioè Emigranti, opera che gli è valso il premio Mondadori nel 1928. Perri parla per esperienza e ci narra delle lotte dei contadini pandurioti, ci dipinge un affresco grandioso del mondo contadino e pastorale dell’Aspromonte. Il romanzo trova ispirazione nelle usurpazioni delle terre demaniali, molto diffuse in Calabria dopo l’Unità d'Italia e che rappresentano un’importante pagina della storia del nostro Meridione. È necessario riportare un passaggio delle Disposizioni governative per lo stralcio delle operazioni demaniali nelle province napoletane, stampate a Napoli dalle stamperie nazionali, nel 1861. “Dopo la legge eversiva della feudalità in queste province napoletane del 2 agosto 1806, il Governo del tempo intese dare un fecondo sviluppo al principio della proprietà privata, disponendo, che si sciogliessero tutte le promiscuità di dominio e di usi, esistenti tra gli antichi feudatari, le Chiese ed i Comuni: che le parti assegnate in libera proprietà a questi ultimi fossero distribuite in quote ai cittadini più poveri di ciascun Comune, sotto la retribuzione di un annuo canone”. In realtà invece di essere distribuiti ai cittadini più poveri di ciascun Comune, quei beni, in tutta la Calabria, sono stati usurpati dalle famiglie più benestanti. Non dobbiamo dimenticare I fatti di Casignana, opera di Mario La Cava. Pubblicata per la prima volta nel 1974, narra le vicende della lotta contadina all’indomani della Grande Guerra in un paese alle pendici dell’Aspromonte, per il rispetto della legge Visocchi, secondo cui ai reduci di guerra era concesso di sfruttare i terreni incolti. A Casignana, feudo della principessa di Roccella, i contadini iniziano a bonificare la foresta Callistro ma, un mese prima della marcia su Roma, la concessione delle terre viene revocata; i contadini, guidati dal sindaco socialista Filippo Zanco, occupano pacificamente la foresta; il prefetto intima lo sgombero, le forze dell’ordine attaccano e si consuma la tragedia.
In questo excursus storico, tornando a Platì, bisogna menzionare gli anni 50 o meglio la tragica alluvione dell’ottobre del 1951 che ha causato diversi morti. È proprio l'alluvione che determina lo sconvolgimento sociale di Platì. Un inesorabile processo di emigrazione che dissangua il tessuto economico platiese e dimezza nel giro di pochi anni la popolazione che contava più di 6.000 abitanti. Come aveva ricordato il giornalista Gianni Carteri in un suo articolo del 1992, è un richiamarsi a vicenda; dall'Australia e dalle Americhe. Si abbandonano le campagne e conseguentemente i proprietari terrieri incominciano a perdere il loro potere. Furono in prima fila ad ostacolare il trasferimento dell'abitato di Platì che si voleva portare nella zona di S. Ilario dello Ionio. Si optò per il consolidamento. Con i contadini vanno via tanti bravissimi artigiani (in special modo sarti) cerniera sociale tra la borghesia terriera e la classe contadina: il vero collante insieme agli intellettuali (non pochi) della società platiese.3
Voglio concludere questa mia relazione con una citazione di dello scrittore e regista Franco Arminio:
"Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento".
1 Mario La Cava, Corriere della Sera 19 febbraio 1986
2 Francesco Tripodi, sul blog Storia delle sette fiumare, maggio 2020
3 Gianni Carteri Testi e foto: Calabria – Anno XX – Nuova Serie - N. 83 - giugno 1992
Nessun commento:
Posta un commento